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La Gibigiana

     

 
Le recensioni di:
 
  • Giuliano Macchi (È stato ordinario di lingua e letteratura portoghese nelle Università di Bari, Roma “La Sapienza” e di L’Aquila. Ha compiuto studi su F. Pessoa e su J. Guimarães Rosa, Traduttore di molte opere e scrittore).

  • Albino Gaudieri (Docente ordinario di lettere classiche presso i Licei statali. Scrittore, poeta e saggista. Cultore di musica e organista)

  • D. Tommaso Molinaro (Sacerdote della Famiglia dei Discepoli. Laureato in lettere classiche. Professore e pubblicista con vasta esperienza d’insegnamento nelle Scuole superiori e nei Seminari dell’Opera Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia, fondata da Padre G. Minozzi e P. G. Semeria)

  • Fausto Gianni (Scrittore, pubblicista, filosofo)

  • Angelo Civitareale (Professore, scrittore, pubblicista e noto giornalista di alcune testate regionali ed estere)

  • Simonetta De Marinis (Docente di lettere classiche e di storia dell’arte nelle Scuole Statali Superiori, a Napoli. Saggista e pubblicista. Sono note le sue opere su Achille D’Orsi e Vincenzo Gemito e gli studi sull’arte napoletana)

  • Mila Marini (Scrittrice, pubblicista. L’articolo è apparso sulla rubrica “GIORNI” de Ju Zirè - Settimanale aquilano di Abruzzesistica e Dialettologia. 19/01/2002).

  • Noemi Paolini Giachery (Docente di lettere classiche nelle Scuole Statali Superiori, Saggista e pubblicista Molto noto un suo saggio su Italo Svevo)

  • Emerico Giachery (Docente ordinario di Letteratura Italiana in molte Università italiane come Genova, L”Aquila, Roma ed anche estere, Scrittore e saggista molto noto ed apprezzato. Famosi i suoi saggi su Ungaretti, Montale, ed altri autori della Letteratura moderna e contemporanea)














Recensione di Giuliano Macchi

Questo romanzo è per vari versi un libro straordinario, nel senso etimologico del termine: fuori dell'ordinario ed anche al di sopra e al di là dell'ordinario. Proverò a puntellare questa mia opinione, cosi rara ad aversi riguardo a ciò che si viene pubblicando oggi, fissando alcuni punti fondamentali, quattro per la precisione, nei quali questo romanzo si può inquadrare, procedendo dall'ordinario su su fino allo straordinario. Devo però premettere che l'ordinario non necessariamente si identifica con il banale o peggio: che anzi, molto di quanto a questo termine si applica, a seconda di come è detto e perché è detto, può raggiungere livelli eccellenti, senza che la sua "ordinarietà" gli sia di ostacolo.
Il romanzo si dipana attraverso quattro filoni intrecciati, come un gomitolo di lana di quattro colori strettamente intrecciati. Già questo fa parte dell'ordinario, trattandosi di un procedimento largamente usato dagli scrittori di ogni tempo e paese, da Omero a Umberto Eco, diciamo. Ma la formula in sé non è sufficiente se non la si applica con vigile equilibrio e con un "motivo" intimo che sostenga il procedimento.
Veniamo dunque al primo filone: quello autobiografico, che si addensa intorno al personaggio di Aristide, alla cui vita, fin dalla prima pagina, viene applicata la metafora del corso d'acqua, dalla sua nascita come esile polla alpestre, al suo corso multiforme, alla sua foce situata nel futuro, quando si diluirà nel Gran Mare dell'Essere, creando, appunto sul far della sera, quell'effetto di luce cangiante, come riflesso o barbaglio sull'acqua, la gibigiana, appunto, assunta simbolicamente come titolo del romanzo. Quel che più stimola l'autore è il corso alto del ruscello (l'infanzia) e via via torrente (adolescenza e prima giovinezza), là tra la natura selvaggia di Lucoli che segna il confine tra i monti abruzzesi e le pianure laziali. Lassù il bambino e poi giovinetto Aristide scaturisce come "giovine sorgiva" (per dirla, non a caso, con D'Annunzio), e intride quella terra della sua acqua e se ne intride, con un amore per quell'ambiente e per la sua gente di cui fin dalla più tenera età si rende conto, e ne gode con assorta consapevolezza.
L'autobiografia si dipana ariosa ma senza pedanteria, in primo piano stanno sempre le cose vere e forti, quelle che è bello rintracciare nel loro colore del gomitolo. Sul racconto aleggia una quiete solenne, che non è assenza di dolore (in quale vita non si affaccia il dolore?) e non è solo appagamento dello spirito e dei sensi: insomma una vita "normale", con le gioie ricercate e le immancabili crisi. E per questo anche il dolore è un dolore consolato.
Secondo punto e secondo colore del gomitolo: la vita, parallela e spesso intrecciata con quella di Aristide, degli altri, per lo più degli adulti, con le loro storie frequentemente squallide e segnate da sensi di colpa: qui i protagonisti sono Soridea detta Dea, la bella e concupita, serbata ad amaro destino; la mamma Sabetta, uno dei personaggi più positivi del libro, custode dell'antica foggia di vita e votata al sacrificio nella sua sterile difesa della figlia: Lamberto il fattore, l'antagonista, maneggione e privo di scrupoli, toccato però anche lui, sul finire della vita, dal soffio della Grazia; e il Barone, uno degli ultimi rappresentanti della categoria in estinzione dei proprietari terrieri, lacerato tra desideri illeciti, rimorsi ed interne incertezze. La vita di tutti costoro e di quanti a diverso titolo entrano nel romanzo si svolge sullo sfondo della realtà sociale e politica dell'Abruzzo e dell'Italia tra gli anni Trenta, la guerra e il dopoguerra. Se un qualche calo di tensione narrativa è dato riscontrare nel romanzo è proprio nelle pagine dedicate a questo secondo "colore" ed è dovuto allo sganciamento del protagonista Aristide da queste vicende più corpose (specialmente il grande imbroglio tra Lamberto, Dea, il figlio illegittimo, il Barone e la Sabetta). Qui si rischia di scivolare verso l'"ordinario "romanzesco, la messa in sordina dell'autobiografia, anche se forse in realtà così non è, ma è certo che ne da segni flebili. E tuttavia anche questo filone è sempre soffuso di dignità e materiato di un continuo intreccio di crisi di coscienza e di un tessuto coinvolgente di meditazioni angosciose. Ma interviene al soccorso, con quanto più robusta vena, il terzo filone della Gibigiana: che è quello di una vivificante spiritualità che permea di sé questo romanzo, una spiritualità che non si cela dietro lo schermo della petulanza o peggio del sussiego filosofico, né si esibisce sotto queste vesti, ma si qualifica apertamente come sentita e vissuta religiosità di stampo nitidamente cattolico.
Dipanando questo filo Aristide riassume i suoi panni di protagonista, all'ombra premurosa e severa di altro protagonista più alto di lui, quell'abate don Luca che si pone nella sua vita come consigliere sagace e guida di intensa spiritualità.
Si legga un passo esemplare, (pag. 281) tratto da una lettera che il religioso scrive al ragazzo, nel momento cruciale del dubbio sull'autenticità della propria vocazione al sacerdozio: "Tutto si spiega in Dio, se Lui, Signore, ci fa da mediazione all'infinita Sapienza; e se alla mente nostra addita la scintilla per l'estro propulsore, capace di elevarla sulla scia della Sua verità; se si suppone che solo Lui può darci indicazione per scegliere la nostra esatta via."
In questo come in tanti altri passi la religiosità assurge al livello di mistica (di mistica lirica), pur tenendosi lontana da quel tipo di oratoria fastidiosa e alla fine controproducente che sembra essere sigillo inevitabile di tanti mistici. La lunghezza e lo sviluppo di questo terzo ordito è tale che ad esserne coinvolti, attivamente o passivamente, non è solo Aristide ma lo stesso Barone e giù giù, a livelli più modesti e popolari, Soridea, la madre e perfino Lamberto.
Ed eccoci finalmente al quarto dei punti che fanno di questo romanzo un libro davvero "straordinario". Lo metto qui, direbbe il Manzoni, quasi "come il sugo di tutta la storia", anche se averlo taciuto finora sarebbe come aver parlato, facciamo conto, dei Sepolcri foscoliani senza aver informato che si tratta di un carme di 295 endecasillabi sciolti. Ebbene: questo romanzo apparentemente in prosa è composto, dalla prima all'ultima parola, di endecasillabi sciolti, non marcati graficamente come tali, ché l'aspetto tipografico è quello di una regolare prosa, ma metricamente impeccabili e ritmati con una leggerezza che, non immediatamente, fa dubitare anche orecchie assuefatte alla metrica e praticamente mai chi non ne abbia alcuna dimestichezza. E dire che si tratta di circa 20.000 versi, costruiti con tutte le regole dell'arte, dalla dieresi alla sinalefe, con un impiego abbondantissimo di enjambements, mai del tipo violento, ma che pur essendo chiaramente avvertibili, svolgono la funzione di accompagnare il ritmo nel passaggio da un verso all'altro, evitando il rischio della ripetizione cantelinante.
Iapadre ha cercato anche di evitare, per amore di perfezione metrica, l'uso esagerato dei troncamenti, spie evidenti del verso forzato. Tanto è vero che nei rari casi in cui ne fa uso, subito si avverte un fastidio che denuncia il verso e non la prosa, in cui mai sarebbero tollerati. Si veda ad esempio pag. 73, riga 24: "altalenando udir di tratto in tratto".
Il risultato più evidente dello sforzo immane di travasare in poesia un contenuto prosastico, evitando il più possibile asperità e sobbalzi, sta nella manipolazione e nella scelta del lessico. Sono innumerevoli in questo testo i termini desueti, pur appartenenti di diritto all'ambito della lingua italiana, alcuni usati per conferire una patina regionale alla narrazione, ma i più adoperati come sostituti delle parole usuali che tuttavia non avevano la quantità metrica necessaria. Scegliendo a caso si veda "sguisciava" (pag. 47), "sprilli" (55), "mondiglia" (55) "pispino" (85) ecc.
Gli endacasillabi del romanzo hanno un ritmo dominante di quarta, a volte intercalato, per dare l'impressione della prosa, da qualcuno di quarta e settima ("con tenacissimo sforzo virile" (pag. 159, rig. 26) o di prima, terza e sesta ("Sveglia, sveglia, Antomino, porco mondo" (pag: 191, rig. 27) e da qualche altra formula ancora più rara. Fin qui per l'aspetto tecnico.
Ma ancora più interessante sarà cercare di chiarire le motivazioni di una simile scelta. Certo, ognuno è libero di avventare la propria ipotesi.
A me sembra trattarsi di un gesto di ribellione e di sfida verso la prosa di oggi, cosi spesso oscenamente sciatta e mal curata, di lingua povera e approssimativa se non francamente scorretta, il tutto a sostegno di trame insipide e di accatto.
Aver compiuto una simile scelta, privilegiando il verso sulla prosa, mi appare come un atto di coraggio e di alta dignità morale, di recupero di strumenti di un passato che, senza esserlo, ci appare abissalmente lontano, quando certi valori, e specialmente quelli della letteratura, venivano custoditi e tramandati, dicendo prosa alla prosa e poesia alla poesia, che sempre si cercava di occultare sotto ogni forma di espressione. Come ha fatto bellamente Iapadre in questo suo romanzo.

Giuliano Macchi     

 

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Recensione di Albino Gaudieri

Un'attenta ed accurata indagine critica dell'opera, dal titolo "LA GIBIGIANA" di Leandro Ugo Japadre, comporterebbe, indubbiamente, un notevole dispendio di spazio e di tempo, ragion per cui ho in animo di condurne solamente un esame sommario, allo scopo di metterne in risalto i momenti più salienti.
Il lettore, quasi con immediatezza, già attraverso le primissime pagine, può constatare che l'autore vuole, in quest'opera, inglobare il suo particolare universo, ricco di molteplici riflessi di natura psicologica, spirituale, sociale e religiosa.
Estremamente brillante la sensibilità poetica e la sottile penetrazione, con cui analizza la realtà socio-economico-politica, non solo della sua amata terra lucolana, ma anche di una buona parte dell'Abruzzo aquilano
Molto attraenti risultano le tante pennellate, che, di tratto in tratto, illuminano la mente del lettore, sui particolari contesti storici, in cui si svolgono le complesse vicende narrate.
Aristide, il protagonista, timido, esuberante, trasgressivo, dotato, tuttavia, d'un profondo spirito umanitario, quasi contrapposto al fratello Agenore, docile, deferente, duttile, non è altro che un indagatore nato, più che nei confronti altrui, nei confronti di se stesso, quando si accinge a tracciare minuziosamente la geografia della sua anima, nei vari momenti dell'esistenza.
Già quando vede la luce, si considera, con evidente senso di apprensione e “di commiserazione, un esserino, che si apre alla vita come le acque d'uno zampillante rivo al suo debutto”: un querulo, timido preludio, come chi si inoltri verso l’essenza d'un recondito mistero!
Anche in molte altre pagine dell'opera, si trovano diffuse queste voci ricorrenti: flusso tortuoso, fiotto, argine, palude, forre, piena vorticosa, come il fiume della vita, che, dopo tante “opache storie”, raggiunge la foce, assumendo una placida andatura, verso le “ondate dell'eterno”.
A questo punto la Gibigiana suscita un particolare stato d'animo, attraverso il suo balenio di luci riflesse, “come sfarzo d'un giallo-oro sulle acque del fiume”.
Il protagonista, infatti, dopo che l'amico Lamberto s'era già chiuso nel chiostro di S. Chiara dei Cappuccini in preda ad un'ansia metafisica, che tocca e sconvolge il suo spirito, affermerà nelle ultimissime pagine del romanzo che “non serve la stola per riuscire a conquistare gli spazi sublimi del Divino”.
Ma quale profondità di sentimenti e di affetti esprime, a seguito della temporanea separazione dalla madre e del suo ritorno a lei, mentre la vede abbandonarsi ad un'effusione ineffabile, col cuore paragonato “ad un arco voltaico entrato in fase”. Evento indimenticabile: “momenti calcificati come le ossa, nella memoria!”
Rimangono, poi, ben impresse nell'animo del lettore le pagine, che recano la minuziosa descrizione di quel mondo bucolico-virgiliano, dove Aristide trascorre gli anni lieti e sconvolgenti della sua preadolescenza, ricontemplando, con profondo afflato poetico, gli atti liturgici di quella vita agreste, che si svolgeva nella sua vallata e nelle sconfinate tenute baronali.
Stupenda l'immagine della trebbiatrice che, con le sue complesse strutture e con la sua tiritera “tormentava i suoni e i silenzi della valle”.
Un profondo soffio di vera poesia si riscontra indubbiamente nel momento in cui Aristide, rinchiuso dalla sorte tra le complesse strutture del collegio, con l'animo traboccante di nostalgia, dalle Murge “scapricciava la mente per i noti acrocori montani della sua terra natale”, tra cui spicca il Monte Orsello.
Segue poi una dettagliata descrizione di tanti caratteristici borghi disseminati lungo la stupenda vallata lucolana: Collimento, Casamaina, Cesagrande ed in particolare il profilo del colle S. Michele.
Aristide rivede, allora, attraverso immagini purissime, filtrate nella memoria, se stesso come l'illuso paggio aggirarsi nelle tenute baronali sbizzarrirsi tra le cavalle scalpitanti lungo quelle terre, ricordando episodi e ragazzate con i suoi compagni Adelmo, Sisto, Augusto, Innocenzo.
Spiccano nella loro mole due importanti strutture, il palazzo dei baroni Decaroli e l'abazia di S. Giovanni con i due personaggi altrettanto importanti, il barone don Damaso e l'abate don Luca. E proprio l’abbazia è punto di riferimento diretto o indiretto per molti personaggi, le cui vicende occupano gran parte del tessuto narrativo.
Il barone si presenta caratterizzato in maniera complessa: con la coscienza sconvolta, perennemente insoddisfatto, in cerca d'una profonda serenità interiore.
L'abate, guidato da uno spirito missionario e da un'ardente carità verso la povera gente, che a stento riusciva a sbarcare il lunario, è in perfetta coerenza col suo ruolo in tutte le vicende fino ad ottenere in uso il palazzotto baronale come asilo e casa di ospitalità.
A mio giudizio, mentre altri personaggi risultano sbozzati con pieno equilibrio e con somma competenza, quello di don Damaso è presentato dallo scrittore con un rigoroso scavo interiore; coinvolto, infatti, nella sua equivoca vicenda, è tormentato dal rimorso e considera la sua coscienza una vera palude, anzi un gran pantano.
Quasi al medesimo livello viene analizzato il personaggio di Lamberto, prima disinvolto e licenzioso e poi dilaniato da angosciosi dubbi e da drammatiche vicissitudini fino al momento in cui, miracolosamente scampato alla morte, si converte e cambia vita rifugiandosi nell'oasi francescana di S. Chiara.
Indimenticabile la figura di Antomino, che con sé porta, sino alla morte, i segni d'una tragica vicenda che lo condanna ad una vita di solitudine, pur restando rassegnato, onesto e fiducioso; persino Aristide, resta affascinato dal comportamento del vecchio e ne sperimenta il forte senso umanitario, e la sua ospitale premura.
Soprattutto i personaggi femminili sono descritti in maniera molto particolareggiata, tanto da colpire la curiosità e l'attenzione del lettore. Da esperto analista, nonché da rigoroso psicologo l’autore ne indaga le pieghe più riposte dell'animo, e, come scrupoloso ritrattista, ne mette in luce i particolari somatici: il viso, gli occhi sorridenti, le labbra tumide, l'atteggiamento, il forte slancio.
Dalla piccola e delicata Gelsomina alla bionda Soridea, “dal viso come bocciolo pregnante, la doppia treccia con le nappe, il sorrisetto da mandorlo in fiore”, ad Elisa “con il suo bel vestito rosso che dischiudeva dalla rima di due labbra scarlatte un trepido sorriso da sirena”.
Spesso, l'autore, servendosi di un lessico rigorosamente scientifico, quasi da dotto botanico, sempre dominato da un profondo fervore poetico, s'abbandona a tracciare brevi e semplici quadretti naturali estremamente toccanti, osservando l'aspetto di tante nuove piante, in mezzo ad una vegetazione lussureggiante di quella sua terra, delineando il gioco stupendo della luce solare riflessa: “salici e pioppi, come fantasmi, sussurrano alla brezza”.
Il romanzo, nella sua complessa orditura, lascia emergere, in talune pagine, una tematica comune ai più noti narratori abruzzesi: la saggezza popolare, espressa con voci dialettali, la transumanza, il mito della casa e del focolare, il senso della provvidenza. Assai stupenda l'immagine di quel muto funerale, che si snoda, nel cuor dell'inverno, con tanta difficoltà, “come processione perdolente sul candido sfondo di un'alta coltre di neve diaccia”.
E quando lo scrittore sembra trascendere il puro livello cronologico autobiografico, il lettore respira un'atmosfera più decisamente poetica, come quella che pressappoco regna nel mondo del Verga.
E pare, inoltre, che nello svolgimento di tante “opache storie”, costellate da tanti risvolti e da molteplici attraenti episodi, si delinei in maniera latente o patente, nell'animo dei personaggi, una chiara tendenza alla catarsi, alla vera palingenesi.
Importante il dialogo, anche se alquanto elevato e prolisso, tra don Luca ed il barone, sotto il platano frondoso. Durante le loro discussioni etiche, culturali e spirituali sul senso della vita, trapela fascinoso il balenio della gibigiana, nell'ora del tramonto, sulle fluenti acque del Tevere, che sembrano andare verso l'eterno oceano dell'aldilà: una prospettiva di speranza, un’ideale effusione di grazia divina.
Sotto un alone di tenerezza profonda, nonché di generale apprensione, appare la simpatica figura di Rino, figlio della colpa e del peccato, considerato da suor Teresa il suo angelo, anzi il suo cherubino, ma che costituirà, successivamente, oggetto di sospetti, di calunnie e di paure, nonché di premure e di emozioni poiché frutto di una scabrosa, equivoca vicenda. E tuttavia, protetto dalla divina provvidenza, sarà oggetto di premura prima da parte dell'abate don Luca, efficacissimo strumento di una volontà superiore, e poi dai baroni stessi che lo adottano.
Verso la fine della seconda parte del romanzo, anche Aristide si trova a vivere il ruolo di giovane padre adottivo e non manca di far perno sul suo spirito di abnegazione, per risollevare le sorti morali ed economiche degli orfani di guerra che gli sono affidati; è allora che le confluenze provvidenziali degli altri protagonisti del romanzo si intrecceranno con il corso della sua vita fino a determinarne il futuro, fino a far sorgere il suo amore ed il matrimonio con Elisa, che sarà rallegrato anche dalla presenza dei suoi orfani, i quali innalzeranno, in fine, un inno struggente alla Vergine, a coronamento della semplicissima cerimonia nuziale.
In ultima analisi non esiterei minimamente ad affermare l'oggettiva validità del romanzo, non solo per la sua originalità ed organicità strutturale, come anche per il suo naturale stile espressivo, talvolta, un po' ricercato ed elaborato, ma soprattutto per la particolare dinamica, che regola e determina il piacevole intreccio delle molteplici vicende narrate, al punto da coinvolgere sensibilmente ed emotivamente il lettore.
 

Albino Gaudieri              
 

 

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Recensione di D. Tommaso Molinaro

Carissimo Leandro,
ho finito di leggere il tuo romanzo, a un mese, più o meno, da quando me lo affidasti in lettura, gentilmente.
Mi sembra naturale e giusto che ti esprima fraternamente, come sempre, il mio giudizio al riguardo, come eravamo d'accordo, anche se esso può avere solo valore privato.
Debbo dirti anzitutto che ho letto il libro, tutto, con sempre maggiore interesse, ancorché non abbia avuto il tempo di "riassaporarlo" in una visione d'insieme, se non a larghe linee, come puoi constatare da quanto scrivo.
È davvero un gran lavoro (che non immaginavo...) e che ti sarà costato fatica molta. Sono quasi 420 pagine fitte, piene, sulle vicende del protagonista Aristide Arpadei, dalla sua nascita al suo matrimonio.
Un romanzo psicologico, sociologico e storico insieme.
I personaggi vengono analizzati nell'intimo del loro carattere, della loro formazione, dei loro intenti, nelle varie situazioni del loro ambiente e degli avvenimenti storici, in cui vivono.
Soprattutto, è chiaro, il protagonista, Aristide, ma anche il Barone, Don Damaso, la Baronessa, Donna Clara, il loro fattore, Lamberto, la povera Soridea, l'Abate-Parroco Don Luca, il piccolo Quirino, personaggi "cardini" del romanzo...; e poi le figure "femminili": la"piccola donna" Gelsomina, la"modesta" Marilena, la"spigliata" Luciana, la"disinibita"Mara e, infine, Elisa, "l'umile stella vincente": intorno a loro si dipana, mano mano, la trama delle vicende giovanili di Aristide. Belle le figure delle "madri":
Carolina, la madre di Aristide; Sabetta, la madre di Soridea; Donna Clara, la"sterile" madre adottiva di Quirino: comprensive tutte e tre, pazienti, ma anche capaci d'intervenire, a risolvere i guai...
Certo curiosa la storia di Quirino Musti (figlio di chi veramente?), erede dei beni del Barone, amato come un fig1io dalla Baronessa...
Drammatiche, commiserevoli le vicende della "Dea", splendida farfalla, attratta dalle luci fatue e perita miseramente in un Ospedale, con la sola compagnia della cara fedele madre Sabetta (cap.37).
Particolare è il carattere di Aristide: vivacissimo, pronto all'avventura, poco inclinato allo studio serio, facile esca degli "amori"..., affettuoso, però, con i familiari, con gli amici, con i bisognosi (come alla "Lauretana").
Mi sembra che tu abbia voluto rintracciare, riscoprire le naturali tendenze del personaggio, positive e negative, collegate con l'ambiente familiare, paesano, sociale, in cui vive e notarne, volta a volta, le varie evoluzioni nella formazione della sua particolare personalità, nell'incanalare la sua vita in una esplicazione di affetti e di attività davvero inattesa, perfino da lui stesso.
Tipico è il suo coronamento d'amore con "la fanciulla che veniva dai latiboli arcani del pensiero" ...
Che dire (il romanzo non può dirlo) dell'attività di Aristide "svelato"? Da educatore di orfani a scrittore, poeta, pittore, editore di largo respiro.
La forma espressiva è sempre alta e profonda: alta, per i vocaboli (spesso peregrini, almeno per me, poverello), per le immagini, frequentissime e scelte; profonda, per i concetti, le introspezioni psicologiche, i problemi di coscienza non semplici...
L'andamento del periodo è spesso, ritmico, quasi, soprattutto nei punti di maggior "patos"...: l'ho avvertito fin dalle prime pagine, con mia meraviglia... (Come vedi, non ho fatto una lettura superficiale, ma il ”dettato” mi ha avvinto fin dal principio e mi ha portato con sé, inevitabilmente...)
Parecchie sono le ''rappresentazioni (come dire?) "amatorie":
– Gelsomina e Aristide ; Lamberto e Dea; Rodorigo e Dea; Don Damaso e Dea; Aristide e Luciana; Mara ecc.... Pur espresse con vocaboli ed immagini letterarie, non facilmente accessibili a lettori ordinari, esse esprimono realisticamente i processi complessi-psico-somatici del rapporto amatorio...
Complesse e profonde, ma sempre, mi sembra, sul "filo di retta teologia", sono le non rare riflessioni dei personaggi (o dell'autore?).
Che posso dirti d'altro?
Tu mi accennavi di voler contribuire con il tuo lavoro alla campagna "adozionale"... Certo, di adozioni si parla molto, fin dall'inizio, nel libro.
Marilena è una figlia adottiva, scelta come futura sposa di Aristide, anch’egli quasi adottato dallo zio paterno.
Quirino Musti è il vero trionfo dell'adozione: frutto di trame peccaminose, rimane erede adottivo, per vie insospettate davvero, segnate dalla conversione dei suoi due"padri"...
Significativo è, poi, tutto l'andamento educativo, che Aristide svolge alla “Lauretana'':' '(...) far da padre putativo a quei ragazzi...”adottandoli spiritualmente in quanto orfani di guerra (2a parte, p. 376, sg.). Ed è lì, alla "Lauretana", che Aristide conclude il suo tanto sperato "vincolo d'amore" con Elisa”, pervenuta dal contado e cugina di un orfano" (p. 413, sg.): quasi suggello alla sua opera educativa ... e, quindi, delle complesse vicende del romanzo.
E “La Gibigiana"? Cos'è questo "gioco di luce riflesso su un vetro (o specchio) – (Dizion. Garzanti)? Me lo sono domandato il significato di quest'altra tua "preziosità letteraria" fin da quando aprii il libro per la prima volta. Ed ecco il"lampo" di spiegazione, che mi ha colpito alla fine di questa lettera.
"La Gibigiana" è la tua vita giovanile riflessa nelle trame del, romanzo.
Il tuo romanzo, in realtà, è la tua "autobiografia" (gioco di luce-vicende-varie della tua vita giovanile) riflessa nel vetro (trame) della vita giovanile di Aristide. Non so se sono arrivato al "segno"…
Concludo questa lettera del primo lettore del tuo romanzo, che vi ha espresso i suoi giudizi, fraternamente sinceri ed augura che il libro possa avere più di "venticinque lettori” (quanto umilmente se ne augurava il grande Manzoni, Don Lisander) e soprattutto possa far loro del bene, che, penso, sia anche il "succo" della tua storia.
        Un abbraccio
                            dal tuo D. Tommaso Molinaro


 

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Recensione di
Fausto Gianni

Caro Leandro,
affido alla carta, astretto dall’amicizia, quanto ti ho detto per telefono della tua Gibigiana:
Mi sembra, nel complesso che il romanzo pecchi un po’ di lunghezza; e forse, più che per numero cospicuo delle pagine, per la proporzione tra pagine e contenuto narrativo.
In particolare ci si incontra in descrizione di stati d’animo, di paesaggi, di scene che, pur se restano pregevoli per suggestione e capacità evocativa, perdono di effetto per la soverchia abbondanza e ricchezza della stesura.
Vi sono nel testo due o tre scene, ed espressioni, di troppo crudo realismo e come tali nemmeno in armonia col tono del racconto.
Ricorrono sovente parole inconsuete, che obbligano il lettore a ricercarne il significato nel vocabolario, dove spesso non si trovano.
Ed ora che della tua Gibigiana ti ho detto tutto il male che ho potuto, spero che non vorrai pensare che non sia sincero ciò che qui aggiungo:
Il libro si legge volentieri. Te lo dico con sicurezza, ora che l’ho letto per la seconda volta: per la seconda volta esso ha retto alla mia lettura, e sa il Cielo se io sono lettore di facile contentamento.
Il linguaggio è fluido, vario, fiorito (a volte forse anche troppo). I dialoghi sono vivi (particolarmente notevoli quelli che si incentrano in Don Luca), come vivo è, in genere, l’interloquire dei personaggi.
Anche i soliloqui sono pregevoli, per intensità di sentimenti e vigore di espressione, e taluni altresì per elevatezza intellettuale.
Aleggia a quando a quando, in qualche pagina, o splende, la poesia: in una preziosa concisa notazione, in uno sprazzo inatteso, in un ampio squarcio. Ed essa non soltanto giustifica la scrittura in versi, ma anche assolve il libro dei suoi peccati. Perché nell’opera d’arte la poesia fa ciò che nella vita morale la charitas, della quale si dice che omnia vincit; ché se non fosse, dovremmo dannare all’inferno dei cattivi libri anche la Commedia di Dante.
Non so se il mio giudizio possa esserti di qualche utilità, ma ad ogni modo sono lieto che questa doppia lettura della tua Gibigiana mi abbia fatto un po’ vivere insieme con te durante le ore che mi ha preso.
Ti abbraccio
                      Gianni

 

 

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Recensione di Angelo Civitareale

Carissimo Japadre,
ieri sera ho finito di leggere le 414 pagine (che in un, primo momento credevo fossero solo 220!) de "La gibigiana", o "gibigianna" (termine che io preferisco - ti ho spiegato perché).
Ti confesso, che per me è stata una lettura straordinaria, unica, seppure molto laboriosa e impegnativa.
Infatti non capita spesso ad un lettore e persino ad un recensore di imbattersi in romanzi del genere, fuori dei canoni letterari vigenti, anomali.
Chiaro che ogni scrittore ha il diritto di esprimersi come può, sa e vuole (quest'ultimo è, mi pare, il caso tuo).
In proposito, ”mutatis mutandi", potremmo citare la famosa terzina di Dante (Paradiso, XXVI, 130): "Opera naturale e ch'uom favella, / ma così o così , natura lascia / poi fare a voi secondo che v'abbella".
A parte le riserve che ti ho espresse per telefono (che rimangono intatte), ho trovato il tuo ponderoso lavoro di genere narrativo (credo il primo per importanza e impegno) tecnicamente molto ben congegnato, dalla solida ossatura, con tutte le rotelle del suo complesso meccanismo al loro giusto posto, condotto da un'abile e incisiva regia, che ha saputo curare nel migliore dei modi la messa a fuoco delle idee che lo attraversano e dei contenuti che lo sostanziano.
Mi ha colpito, inoltre, il gioco delle metafore (forse, al limite dell'abuso) e delle onomatopee (qui assolverei senz'altro ogni tuo reperto lessicale).
Ho apprezzato in modo particolare i tuoi spunti ironico-umoristici, specialmente sul personaggio Aristide, che costellano, qua e là, il tuo romanzo, apportando un gradevole venticello di freschezza e di relax all'interno delle molte pagine, pregne di vicende liete o penose e tragiche.
Infine, ottima a mio giudizio la caratterizzazione dei protagonisti, principali e secondari, anche se (ma bisognerebbe evitarlo) spesso li fai pensare e parlare secondo il tuo personale metro culturale.
Scusami, se mi sono permesso di rettificare qualche data.
A risentirci per telefono al più presto.
Tanti cordiali saluti.
                 Tuo Angelo Civitareale
 

 

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Recensione di
Simonetta De Marinis

Caro professore,
la sua “Gibigiana” mi ha accompagnato in questi giorni e quasi, adesso, mi dispiace staccarmene.
Vi ho trovato tutti gli “ingredienti” giusti per un buon romanzo, dalla profonda indagine psicologica, resa attraverso il sottile riscontro nel reale del sentimento dei personaggi, al respiro storico di uno spaccato sociale ricco di sfumature e corredato da una puntuale e vivida ricostruzione d’ambiente, alla fresca immagine della natura sempre presente ed in rapporto costante con i personaggi.
Ed ho apprezzato il dosato sarcasmo di alcune battute e, soprattutto, la sua prosa poetica piena di assonanze e di vive metafore analogiche, con le sue immagini legate alla terra d’Abruzzo.
E ho trovato molto calzante il paragone iniziale tra la nascita e il corso del fiume, nonché il perfetto intrecciarsi e snodarsi delle singole vicende umane narrate. Quanto c’è d’autobiografico in esso (oso chiederle)? Non mi viene in mente, invece, nessuna critica da avanzarle.
Posso solo dirle di aver letto più “avidamente” la prima parte, che mi pare ancora più sapientemente orchestrata della seconda, che pure, però, ha numerosi punti di forza, soprattutto il puntuale riferimento alle vicende descritte relative alla seconda guerra mondiale.
Mi auguro che il libro possa avere la massima diffusione e l’apprezzamento che merita (e oggi, purtroppo, è difficile dire lo stesso di alcuni romanzi tanto in voga…)
Con la stima di sempre (ancora accresciuta, se possibile, da questa lettura che la ringrazio di avermi sollecitato a compiere) le invio con i saluti e gli auguri più cordiali.

        Simonetta

 

 

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Recensione di Mila Marini

Il titolo, che incuriosisce.
Il libro: d'acchito, la sensazione, quasi traumatica, di un linguaggio sopra le righe.
Comunque, il fascino di un'opera d'altri tempi, per l'uso della parola, antico e riadottato, il periodare fastoso e aulico, che avvince e disorienta.
Dopo l'iniziale disaccordo, subentra comunque tra la scrittura e la lettura, un "feeling" intrigante, di immedesimazione. Il racconto a snodarsi secondo gli schemi del tradizionale romanzo d'epoca, in una disamina scrupolosa dell'ambiente e dei personaggi.
L'Abruzzo, terra natale dell'autore, che ne conosce gli aspetti palesi e ne sviscera quelli reconditi; la storia e le storie, in un'alternanza parallela: fatti e persone che si incontrano e si intersecano; un palcoscenico insomma sul quale recita ciascuno il proprio ruolo; sentimenti e passioni, il quotidiano, diario minimo a fronte anche di tragici eventi; la frusta del pubblico giudizio fra arcaiche costumanze, vite segnate da destini intercambiabili; quando sopravviene il caso o l'incidente, a deviare il percorso.
L'amore, la famiglia, la cultura contadina, l'albagia di casta, le ambizioni, in un gioco a volte perverso di specchi concavi e convessi, dove la morale - se pure comune - si fa apocrifa definizione, e si impugna e si sconfessa secondo convenienza.
Da qui, un libro suggestivo, e "nuovo", nell'assurdo di principio.
La coralita dell'insieme, il pubblico e il privato, piccoli drammi e piccole conquiste, desideri inconfessati, nel mondo visto in controluce.
(La "gibigianna"?)
Dove il sacro, dove il profano; la penna dello scrittore, a volte sottilmente ironica, a volte, invece, ecco l'estro del poeta nel tratteggio di scorci visualizzati; e ancora la conoscenza degli animi, intropezione non aliena da una critica obbiettiva, ma non mai severa fustigatrice.
"La Gibigiana": leggerlo, gustarlo e meditarlo.

Mila Marini                                
 

 

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Recensione di Noemi Paolini Giachery

Carissimo Leandro,
grazie del dono che ci hai voluto offrire, tanto più caro quanto più hai investito in quelle pagine vita, verità e impegno letterario.
Impegno non certo marginale, se nascosto – ma non troppo – sotto il fluire continuo della prosa, vibra e canta con implacabile e regolare cadenza l’endecasillabo. Un caso veramente insolito, forse unico, di poema mascherato in prosa. È segno forse del fatto che, come capitava al tuo conterraneo di Sulmona, quod temptas dicere versus est. Sembra proprio che, a differenza di tanti poeti dei quali i critici cercano i precedenti nella prosa, per te “in principio” sia l’endecasillabo.
E questo spiega anche il timbro e il tono del tuo raccontare sostanzialmente lirico anche per la patina linguistica arcaica ed evocativa. Il realismo è lontano anche se le vicende raccontate sono circostanziate e analitiche e ogni oggetto, ogni dettaglio chiede il suo spazio e il suo senso alla pazienza o piuttosto all’amore del narratore. Il quale, a quanto immagina il lettore, è alla ricerca di un suo tempo passato ma non perduto, direi, in quanto costruttivamente vissuto in un percorso di formazione e di conoscenza.
Romanzo di formazione, dunque, ci sembra di poter dire, cioè quello che i tedeschi chiamano Bildungsroman.
Grazie d’aver offerto anche a noi l’occasione di arricchire la conoscenza della tua personalità.
Con gli auguri più affettuosi d’una luminosa estate per te e per i tuoi cari ti mandiamo un saluto sventolando fazzoletti dalla terrazza ellena.

                         Noemi

 

 

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Carissimo
“qui sotto, accanto al mare, un oleandro/ con “rima ricca” evoca Leandro!”
Con questo distico a rima (ricca) baciata apro il mio piccolo messaggio augurale, sintonico a quello di Noemi.…
… il tuo libro, così ben descritto da Noemi dimidium animae, ci parla di te in questa casa ottocentesca, di famiglia, “con l’anima”, che certo ti piacerebbe.
    Un abbraccio.
                       Emerico

 

 


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