Ho conosciuto la Strega Lisabetta
di Roberto Soldati
La strega Lisabetta abitava dentro una porticina che conduceva
direttamente in cantina, attraverso uno scalone di legno. I due fratelli
l'avevano segregata nel sotterraneo di casa per impedirle di condividere
un'eredità familiare piuttosto consistente.
Tutti gli abitanti del comune la consideravano una poco di buono.
Siccome non potevano definirla una puttana, in quanto non fu mai vista
in compagnia di uomini, la chiamavano strega.
Tutti dicevano che se la faceva con Satana nell'angolo più profondo
della sua cantina. Nessuno si curava di lei, nessuno le chiedeva se
stava bene o stava male, anzi spesso la denigravano e di conseguenza
anche i bambini si sentivano autorizzati a tirare i sassi contro la sua
porta o a mettere i botti di capodanno dentro il chiavistello.
I paesani la invitavano in casa solo per togliere il malocchio quando
qualcuno stava male e i medicinali non funzionavano.
Ricordo come fosse ieri, una contadina che aveva un marito sempre con
mal di testa e capogiri, bussare forte sulla porta della strega; e
quando Lisabetta si affacciò, la contadina le gridò forte: "Tu! Sei
stata tu che hai messo il malocchio a mio marito. Tu lo hai messo e tu
devi toglierlo".
E così dicendo, cominciò a strattonare la strega verso casa.
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Una volta
Lisabetta sparse in giro la voce che sarebbe venuta la fine del
mondo una certa notte del 1960, probabilmente per vendicarsi di un
torto subito. Giunto il giorno del giudizio, nel paese aleggiava un
clima di catastrofe incombente. Anch'io fui preso dall'angoscia,
allora avevo dieci anni. Ricordo un gruppo di vecchiette che
parlavano come se quello fosse il loro ultimo incontro. "Beati
quelli che sono già morti!", disse una di loro, rafforzando
inevitabilmente la mia angoscia. |
Una ragazza, mia vicina di
casa di nome Giuliana, aveva incollato l'orecchio alla radio, e saltando
da una stazione all'altra, cercava di carpire qualche notizia su quell'apocalisse.
Il padre se ne stava silenzioso accanto al fuoco aspettando con
cristiana rassegnazione la fine imminente.
Il fratello si era rannicchiato in un angolo con le orecchie tappate,
mentre la madre, dalla finestra, scrutava per l'ultima volta l'orizzonte
con lo sguardo perso nel nulla.
Io non ci feci molto caso, quella è
sempre stata una famiglia di nevrotici.
Ad un certo punto, Giuliana captò Radio Praga in lingua italiana (una
specie di emittente pirata comunista).
Una voce diceva: "Uomini, donne e
bambini di tutte le età chiedono acqua.
Posso sentire i lamenti di persone malate… Il treno viene subito fatto
ripartire attraverso il fuoco che ha già invaso il binario".
Mentre
Giuliana ascoltava queste parole con gli occhi pieni di terrore, la
trasmissione si interruppe con un forte sibilo. Giuliana terrorizzata,
prese alcune riviste di Grand Hotel, corse nella sua camera e dopo aver
oscurato con le riviste i vetri delle finestre, ficcò la testa sotto le
coperte per non vedere il fuoco cadere dal cielo durante la notte, come
aveva previsto Lisabetta.
Tornai subito a casa, accesi la radio su radio Praga e mi resi conto che
quel comunicato, che tanto aveva spaventato Giuliana, non era altro che
la testimonianza di una deportazione, scritta durante l'ultima guerra.
Siccome vidi i miei genitori abbastanza scettici riguardo la fine del
mondo, mi rassicurai abbastanza da andare a letto.
Quella notte non suonarono le trombe del giudizio, si sentivano
nient'altro che grilli.
Il mattino seguente era terso e lucente.
Quando andai a scuola, Giuliana stava lavando i panni alla fontana,
assaporando la nuova vita. Non posso negare che cominciai a provare una
certa simpatia per quella strega dall'età avanzata ma indefinibile.
Avrei voluto conoscerla meglio, ma la cosa non era facile, era un tipo
scontroso e inoltre odiava i bambini.
Eppure potevo intuire una umanità ed una fine intelligenza nascosta in
lei.
Era alta e affascinante. Viveva dentro quella cantina, con una certa
dignità e non da disperata. Portava abiti variopinti che faceva da sè,
modificando vecchi vestiti, al contrario delle altre donne eternamente
vestite a lutto in un monocromo nero dalla testa ai piedi.
Andava ad attingere acqua con una botticella sulla carriola per
annaffiare il suo rigoglioso orto, senza curarsi di ancheggiare
elegantemente con una pesante conca sulla testa, come le compaesane.
Aveva una innata eleganza che nemmeno il suo dimesso modo di vestire
poteva nascondere. I capelli sommariamente raccolti sul capo, erano
tenuti da un foulard oppure coperti da un cappello da uomo che metteva
durante la stagione calda per ripararsi dal sole, incurante del
ridicolo.
Nell'estate del 66, per sfuggire al caldo, mi riparai dentro la chiesa
del paese.
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L'orologio della torre della Chiesa
della Beata Cristina |
Salii fin sopra l'orologio del seicento che si era rotto una quarantina
di anni prima. Osservandolo con attenzione, mi resi conto che, per
qualche motivo, un piccolo ingranaggio si era spaccato, ma il resto era
abbastanza in ordine.
Si poteva riparare. Mi procurai un peso di ottone per bilancia da un
chilo, lo portai al laboratorio di scuola e con molta pazienza riuscii a
ricostruire il pezzo.
Dopo aver oliato e
riassestato il meccanismo, l'orologio ripartì.
La notte stessa decisi di collegare i martelli e far funzionare
l'orologio a mezzanotte precisa, inaugurandolo. Appena rintoccata la
mezzanotte, mi appostai sopra il campanile per vedere la reazione
degli abitanti, ma niente!
Silenzio totale.
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Ad un certo punto, venne
fuori Lisabetta, aspettando incredula il prossimo quarto.
Rintoccate le 24 e 15 se ne rientrò in casa.
Il giorno seguente, tutti
si complimentarono con me per aver resuscitato l'orologio.
Anche i
vecchi erano contenti e specialmente quelli soli, che sentivano i
rintocchi come una compagnia, un ritorno al passato.
Lisabetta ne fu
così entusiasta da recarsi in municipio per chiedere un piccolo
contributo per me, che dovevo tirare sopra ogni sera tre grossi pesi,
uno per le ore e gli altri due per i martelli.
Ma il segretario comunale, con logica da burocrate, rispose che quel
pezzo d'antiquariato si poteva anche fermare, tanto oggi tutti hanno un
orologio per guardare l'ora. Indignatissima Lisabetta venne a riferirmi
l'accaduto e testimoniarmi la sua solidarietà.
Io le assicurai di dare
la carica gratis, anche per fare un po’ di esercizio muscolare.
Ad un certo punto decise di mostrarmi una pendola con un carillon
incorporato, regalatale da suo zio.
Fu l'occasione per andare finalmente
a casa sua.
Mi aspettavo una topaia, invece vi trovai un posto pulito,
ordinato e stimolante, pieno di oggetti di ogni sorta: corna di cervo,
un grappolo di campanelli, un grande vassoio di legno ripieno di sapone
fatto in casa, in attesa di essere tagliato a quadratini, conserve di
ogni tipo, ampolle piene di intrugli magici, mazzi di varie erbe appesi
a seccare, pestelli, un libro di ricette erboriste, un ritratto di
Galeno, e una sua foto da giovane incorniciata dentro un attestato di
merito che attirò la mia curiosità.
Lisabetta si avvicinò e lo prese con cura lasciando sulla parete un
riquadro più chiaro, segno che era appeso li da tanti e tanti anni.
Indicando l'attestato con il dito storto dall'artrite, mi disse:
"Questo
l'ho vinto nel 1919 in un corso per l'ammissione alla scuola
secondaria. Volevo arrivare all'università, e fare medicina", affermò
con voce un po' amara, e seguitò.
"Mio zio che era in America mi
manteneva agli studi. Mandava persino una retta al dormitorio delle
Agostiniane all'Aquila.
Allora non era facile fare avanti e dietro come adesso. Non c'erano
neanche corriere e la strada era scomoda. Purtroppo", disse
malinconicamente riappendendo l'attestato al muro, "finito il liceo
sarei dovuta andare a studiare a Roma, però il mio fratello maggiore,
quello che lavora al dazio, si rifiutò, dicendo che la città corrompe e
poi la medicina non è cosa per donne, e mi impedì di continuare gli
studi". Cercava chiaramente di nascondere una profonda tristezza dietro
un'espressione della faccia maldestramente spavalda.
Prima ancora che riuscissi ad argomentare una risposta, lei seguitò:
"Non ho mai smesso di comprare libri di medicina. Ho sempre sperato
di rimettermi a studiare un giorno; ma poi mio fratello scrisse allo zio
di non mandarmi neanche più i soldi per comprare i libri, dicendo che
ero diventata una fissata, che per studiare trascuravo le faccende di
casa e che ancora non prendevo marito.
Ad un certo punto mi ammalai, vomitavo ogni cosa che assaggiavo.
Neanche i medici ci capivano niente.
Ero diventata uno scheletro. Una volta scacciai il medico in malomodo,
gli tirai appresso il clistere che si frantumò in mille pezzi", disse
sghignazzando di gusto. "Fu quel giorno che trovai la forza di alzarmi e
studiando alcuni testi di medicina antica riuscii a curarmi da sola, con
somma meraviglia di tutti. Decisi di rompere con la famiglia e di
sistemarmi dove sono adesso. Mio fratello, per la rabbia, mi fece murare
la porta interna per non farmi entrare nel palazzo", disse con stizza.
Le chiesi se le capitava spesso di curare persone.
"Si", mi rispose. "Spesso, molto più di quanto sembra, non con le
medicine però ma con le erbe o sostanze naturali. Le persone bene non
vogliono farlo sapere in giro e per questo pagano spesso un supplemento
per la riservatezza.
Di solito ai paesani non chiedo neanche i soldi, faccio a offerta.
Spesso ho guarito persone con sostanze senza nessun effetto curativo, ma
non per dare una fregatura. Si aspetta il beneficio e il beneficio
arriva.
C'è chi la chiama suggestione e chi magia, questa cosa.
Una volta mi è capitato un tizio che si era convinto di avere un tumore
alla testa. Aveva visto morire un vicino di quella malattia e pensava di
averla presa anche lui. Ne aveva assunto così bene i sintomi, che i
medici gli avevano dato solo pochi mesi di vita. Gli preparai un bell'infuso
di valeriana, ma non gli dissi che era solo un calmante, gli dissi che
era un rimedio contro il tumore. Lo bevve e giorno dopo giorno cominciò
a migliorare. Oggi e ancora li, che scoppia di salute.
Porta sempre uno zucchetto di lana in testa estate e inverno per non
beccarsi un'altro tumore. Questo è un lavoro serio, bisogna saper
discernere la malattia vera da quella falsa, quella metà e metà, o
quella seria che abbisogna del chirurgo".
A questo punto non potevo fare
a meno di chiederle conferma a proposito dei suoi dialoghi con il
diavolo. A questa domanda lei mi rispose con sguardo luciferino: "Il
demonio non è all'inferno, il demonio è l'uomo stesso che raggira
sottomette sevizia e tortura. Non c'è demonio peggiore del bigotto,
secondo me. Satana invita l'umano a guardarsi dal fanatismo religioso
che può essere pericoloso quanto e forse più di una guerra, perchè il
fanatismo è più subdolo, ingannevole e nascosto. In guerra il nemico lo
vedi di fronte. Il fanatico invece, si nasconde tra la gente, sta sempre
in agguato e ti viene contro, quando meno te lo aspetti".
Lisabetta passò i suoi ultimi anni di vita, distrutta dall'alcool,
ospite al ritiro per anziani di Collemaggio a L'Aquila.
Nonostante
avesse dei seri problemi reumatici, Lisabetta scappava spesso dal
ritiro, e se ne tornava al paese in corriera, ignorata come sempre da
tutti.
Un giorno del 1974 a L'Aquila, in attesa della corriera mi recai a
vedere la basilica di Collemaggio, appena restaurata, dove mi affiancò
un vecchio barbone col il palmo della mano mollemente teso che mi
chiese: "Qualche soldo, non è per me, è per la masseria. La vedi quella?
Si nasconde dietro la colonna non è capace, si vergogna, non mi rende,
devo pensare anche a lei".
Voltandomi verso la colonna vidi un volto
imbacuccato che si affacciava con uno sdentato sorriso per poi ritrarsi
vergognoso, era Lisabetta.
Da allora non ne seppi più nulla finchè al cimitero del paese non notai
una lapide che chiudeva un loculo, senza fotoceramica.
Una scritta in
lettere di bronzo appiccicate alla meglio diceva:
Elisabetta Seneca
N. 26.6.1898 - M. 22.2.1976
***
Non sei assente, sei solo invisibile.
una prece Sostai per
parecchio tempo davanti a quel grottesco epitaffio a riflettere del
giorno che la intravidi dietro quella colonna.
Mi tormenta ancora oggi il pensiero se feci bene o male a far finta di
non riconoscerla.
Al momento pensai di salutarla, ma poi, un po’ per timore un po’ per
discrezione non lo feci. Quando mi voltai vidi la mano del suo compagno
ancora in attesa con un sorrisetto birbone e maldestramente pietogeno.
Gli abbozzai un sorriso, gli misi una banconota in mano e gli dissi:
"Beh!, tu pensa alla masseria ed abbi cura della tua amica, tanti auguri"
e me ne andai.
Dentro quella tomba giaceva una strega.
Chi dice che le streghe non esistono si sbaglia.
Io ho avuto il grosso
privilegio di conoscerne una vera, in carne e ossa, il corpo giaceva lì,
di fronte a me dentro il loculo. In fondo se esistono le streghe
esistono anche folletti e gnomi.
Sicuro! Gente che per disgrazia o fortuna nascono piccoli e deformi o
semplicemente diversi come Lisabetta.
Il bosco era il loro rifugio, un posto tranquillo assieme ai funghi e
gli animali, tra le fronde e al riparo dai sguardi indiscreti e
denigratori dei normali e dai loro scherni.
Poteva capitare al viandante che si avventurasse nel bosco di
imbattersi, prima o poi in quelle entità silvestri, sfuggenti e furtive
con i loro cappucci rossi a punta messi in testa per non essere
impallinati da qualche cacciatore orbo o distratto, venuto dal mondo
malato dei normali.
Puoi leggere altri racconti come questo nel sito curato da Roberto
Soldati www.3dmaker.it
nella sezione "Libri in rete" - "Appunti dal cassetto" della IAF
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