Lucoli dopo l'8 settembre
1943
di Attilio Marola
(attilio.marola@libero.it)
n.d.r.
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Quanto sto per scrivere
è la cronaca di un periodo dell’ultima guerra mondiale durante il quale
Lucoli, sconosciuto paese delle montagne abruzzesi, fu investito
direttamente dai suoi eventi tanto da diventare il cardine base della
resistenza, che le truppe germaniche opposero nel fronte del centro-sud
dell’Italia. Avrebbe meritato di essere stata raccontata da altri, più
dotati di me nello scrivere, ma così non è stato, ed allora ho voluto
provarci io nella consapevolezza che sono una delle ultime testimonianze
di quel periodo e che, dopo di me, penso non vi siano altri in grado di
far conoscere, alle generazioni che sono già venute e che seguiranno,
quello che accadde a Lucoli tra il settembre 1943 e il luglio 1944.
Racconto quel periodo, cosi come lo vissi con i miei amici nell’età più
bella, che ora non ci sono più e che al loro ricordo dedico.
L’ultima decade del settembre 1943 volgeva al termine ed io mi trovavo a
casa di Colle di Lucoli insieme a mio fratello, anch’egli ritornato
sbandato, dopo il disfacimento delle forze armate dell’8 settembre. In
quel pomeriggio, sgombro di nubi e ancora caldo, tra le tre e le
quattro, seduti sull’erba del nostro terreno a prato, in contrada “Ara
Marola” il cui spiazzo, come una Rocca, domina dall’alto l’abitato di
Casavecchia, mio fratello Enea, con i cugini Pietro Marola e Mario
Cipriani e il vicino di casa Bruno Di Renzo si giocavano un tressette
tanto per passare il tempo. Poco lontano mio padre, con occhio attento e
lungimirante, guardava una per una le piante, che da giovane aveva
seminato e fatte crescere, studiando, su ognuna, di quale ramo poteva
privarle per ricavarne la legna necessaria a lenire il freddo
dell’inverno ormai prossimo.
Io, il più giovane, mi limitavo ad osservare il gioco ma, spesso,
l’istinto mi portava a guardare verso la casa di Adriana. allora mia
giovane fidanzata,e fu in uno di quel volgere d’occhi, che vidi, nella
località dai paesani chiamata “Sotto le Nuci”, un camion carico di
soldati tedeschi che si apprestavano a scendere e prendere posizioni nei
vari punti dell’abitato. Avvertiti i giocatori, tutti con circospezione
e celandoci tra le fronde delle siepi, ci mettemmo a spiare i movimenti
dei tedeschi mentre le nostre menti già pensavano a come meglio
nasconderci per sfuggire ad un eventuale rastrellamento.
Tanto l’attenzione era presa da quanto vedevamo da non accorgerci di
quello che avveniva appena le nostre spalle fino a che. uno sfrigolio di
metallo e uno stropiccio sul terreno. non ci fecero voltare e, con
nostra sorpresa e meraviglia, vedemmo un tedesco armeggiare per piazzare
e caricare un fucile mitragliatore. Tutti e cinque impietriti e
imbambolati, soprattutto per la presenza dell’arma non sapevamo cosa
fare, se fuggire o restare a continuare il gioco, quando mio
padre,distolta l’attenzione dalle piante, si avvicinò al tedesco
rivolgendogli alcune parole in una lingua a me sconosciuta, ma questi,
senza nemmeno alzare lo sguardo. continuava il suo armeggiare e solo
dopo aver messo l’arma nella condizione di sparare, dalla sua bocca
uscirono parole di risposta. Solo allora, rinfrancato, soprattutto dalla
direzione presa dall’arma la cui canna puntava - non contro di noi - ma
verso il luogo dove sostava l’automezzo, mi risovvennero i racconti di
papà, fatti a me bambino, sul suo peregrinare giovanile, di quando andò
a lavorare in Germania e nel raccontare rievocava, ad uno ad uno, i nomi
di tutte le stazioni, austriache e tedesche, annunciate con verbo
teutonico, all’arrivo del treno nello scalo. Evidentemente, nonostante i
cinquanta anni e passa, le sue reminescenze della lingua tedesca
dovevano essere ancora valide, perché, dopo un po’, tra i due, seppure
stentatamente, si avviò un dialogo abbastanza pacato durante il quale
papà disse al tedesco di essere stato lavoratore in Germania e che, suo
fratello Vincenzo, padre di Pietro, aveva in moglie una tedesca sposata
in Germania, ancora vivente nel nostro paese: Il parlare tra i due servì
al calo della tensione ed a rassicurare, sia il tedesco che noi, che non
c’era da temere per entrambi le parti.
Ci disse poi papà, che il tedesco, nulla gli aveva detto sul perché
della venuta a Lucoli di cui ne ignorava lo scopo, dilungandosi, invece,
a parlare della sua città di origine e del luogo di lavoro di mio padre
nel quale non era mai stato e che conosceva solo geograficamente. Rimase
con noi per circa quaranta minuti,poi smontata l’arma, ricaricatasela
sulle spalle e salutatoci con un “aufwiedersehen” si riavviò verso dove
il camion ancora sostava e risalito tra i suoi commilitoni, già seduti,
ripartì verso L’Aquila.
Rimanemmo sul posto a discutere molto su quella venuta, azzardando varie
ipotesi, senza azzeccarne una, sopratutto perché avvenuta senza
rastrellamenti o perquisizioni. Neanche, nei giorni seguenti,
domandandolo alle altre persone che al momento del fatto erano rimaste
nell’abitato, riuscimmo a saperne di più. Solo con gli avvenimenti che
seguirono ci venne chiaro che quella era stata una ricognizione per
porre le basi all’installazione, nel luogo, di quello che doveva essere
il più importante deposito di munizioni per il rifornimento logistico
del fronte Cassino Valle del Sangro. Infatti, passati una decina di
giorni, un reparto di tedeschi, con al Comando un tenente alto snello,
dal viso tipicamente nordico come un Nibelungo, tre marescialli e altri
tra sottufficiali minori e militari semplici, presero l’ alloggio nella
migliore casa del paese che era quella di Angelo Cordeschi, mentre un
altro drappello, con due della polizia militare, si acquartierarono
nello stabile di Saverio Cipriani posto a cinquanta metri più su del
negozio e dove una stanza venne adibita ad ufficio.
Ora a distanza di sessant’anni è difficile ricordarne i nomi, ma, di
uno, le persone ancora viventi non avranno potuto né potranno scordarne
il soprannome: trattavasi di un sergente, che parlava bene l’italiano e
si diceva austriaco, forse Tirolese, dall’aspetto contadinesco e dal
carattere burbero e maligno che per i suoi tratti somatici fu, dalla
popolazione, subito soprannominato “Don Cesare”: infatti tanta era la
sua somiglianza al prete di Collefracido ”Don Cesare Colagrande” che, se
non fosse stato per il carattere aperto, gioviale e canzonatorio del
prete, opposto a quello del tedesco, difficile sarebbe stato dire chi
era il vero Don Cesare.
Consolidate le basi il comando fece sapere di aver bisogno di operai,
che sarebbero stati regolarmente pagati e che sarebbero stati impiegati
per lavori di spianamento lungo la strada e per caricare e scaricare
automezzi in arrivo e in partenza. Rispose subito all’appello Giovanni
Petricone, il quale s’incaricò di reclutare altri lavoratori dei quali
divenne il “capoccio”, nomignolo col quale i paesani da sempre lo
chiamavano. Furono formate delle squadre ed i lavori iniziarono con la
costruzione di piazzole in ambedue i lati della strada, in siti ben
coperti dalle piante e, dove queste mancavano, mimetizzati con strati di
ramaglie. Cosi, i tratti di strada, dal bivio di San Menna al ponte
“Carrozzo”, da “Fossatiglio” a “Salarano” e da “Sotto la Piaggia” al
bivio di Genzano”, divennero tutto un deposito e, con il continuo arrivo
e partenze dei camion e autotreni, nelle piazzole si accatastavano e
scatastavano tonnellate e tonnellate di munizioni di tutte le specie:
caricatori di fucili, di mitragliatrici e mitragliere, bombe di mortaio
dal tipo “brixia” all’ottantuno, proiettili di obici e cannoni di ogni
tipo e calibro, bombe a mano di ogni marca e nazionalità, mine anticarro
e anti uomo, cassette stipate di dinamite e di tritolo, bombe d’aereo,
micce detonanti e a lenta combustione, oltre che inneschi, spolette ed
altre diavolerie inventate per facilitare gli ammazzamenti.
Le paghe agli operai venivano fatte ogni fine settimana ed erano
preparate da Giorgio Vespasiani, che si era offerto per quel lavoro onde
racimolare il denaro necessario per poter rimanere a Lucoli con la
vecchia e povera zia fino a tanto che tempi migliori, gli avessero
consentito il ritorno a Roma, da dove era fuggito per non rispondere al
bando emanato dai Fascisti in cerca di uomini per la loro ricostituenda
forza armata. La paga che gli operai ricevevano, per la sua entità, fu
come una manna del cielo e fu un determinante aiuto per sopraviverre al
più triste periodo che si possa ricordare.
La valle Lucolana, si sa, è avara con l’agricoltura e i suoi abitanti,
nonostante coltivassero ogni fazzoletto di terra, per procurarsi il
denaro sono stati sempre costretti a cercare lavoro fuori Comune; ma, in
quel triste inverno, questo era impossibile perché se si partiva certo
non era il ritorno. lI campare, senza denaro e con la sola razione
annonaria, di per se già scarsa e di fatto ridotta ad un quarto, era
altrettanto impossibile; l’aver acconsentito a prestarsi nel lavoro, non
solo servì, come è stato detto, ad alleviare la fame, ma servì anche a
tenere lontane le “SS”, le quali, in caso contrario, avrebbero preteso
il lavoro coatto senza paga, e, da ciò, per una ragione o per un’altra,
si sarebbe arrivati ad eccidi o a dolorose rappresaglie di altra specie.
Il coprifuoco vigeva in tutti i tratti del deposito e negli abitati ad
essi vicini, ma negli altri paesi, come quello mio, si cercava di
passare il tempo facendo le faccende più disparate. Si guardavano gli
stormi dei B17 alleati (le cosi dette “Fortezze Volanti”) che ogni
mattina numerosi sorvolavano il cielo di Lucoli per andare a bombardare
chi sa dove, invano inseguiti dal cannoneggiamento antiaereo degli 88
tedeschi e dalle cui cannonate, gli aerei abilmente sfuggivano rompendo
le formazioni. Alla sera si potevano ancora frequentare le “cantine”, ma
il vino scarseggiava e quel poco che gli osti potevano procurarsi dai
produttori locali, era quasi sempre acido e ben annacquato.
Le cantine erano frequentate anche da alcuni militari tedeschi che
cercavano di familiarizzare con la popolazione, con la quale avevano
cominciato anche a commerciare, scambiando uova con sale, genere questo,
per la popolazione introvabile in altro modo, e, averlo, per condire,
era considerato un lusso.
Scarseggiavano anche tutti gli altri generi, dai vestiti alle scarpe e
quasi totalmente sigarette, sigari ed altri tabacchi per cui nacque
anche il mercato nero di foglie di tabacco essiccate, che individui
forestieri, portavano a Lucoli, in mazzi infilati con filo ed appesi
alla bicicletta. I più incalliti fumatori le tagliavano in striscioline
sottili e con l’ausilio di scatole magiche o di cartoline ne ricavavano
tonde sigarette le cui saldatura era affidata alla leccata finale. Il
risultato, almeno per la forma, non era male ma nella sostanza non era
dissimile a quello di chi, non disponendo di quel tabacco, le sigarette
se le confezionava con foglie di patate, di vite o di altra specie,
avvolte in carta di giornale.
I giovani, idonei alle armi, erano sempre sul chi vive per paura di
rastrellamenti per deportazioni o arruolamenti, dei quali si sentiva
dire fossero già avvenuti in altri paesi e, per precauzione, ognuno si
era predisposto un rifugio nel quale ci si precipitava e ci si
nascondeva ad ogni piccolo allarme od ad ogni lieve rumore di motore.
Nel territorio c’erano, rifugiati, anche ex prigionieri anglo americani.
liberati dagli italiani con l’armistizio, alcuni nascosti nelle casette
di “Campoli”, altri in quelle di “ Santeramo” ed altri ancora negli
agglomerati urbani. Ogni tanto squadre di soldati tedeschi facevano
incursioni nei paesi per ricatturarli e questo avveniva, non con i
soldati di guardia al deposito che erano quasi tutti avanti negli anni,
veterani dei combattimenti e forse stufi della guerra, ma con altri
adatti a questi blitz, pronti a sparare ad ogni più piccolo sospetto o
movimento. E fu in uno di questi blitz che persero la vita i due giovani
di Lucoli Alto, Ugo Ammanniti e Benedetto Di Carlo, colpiti dai
proiettili tedeschi mentre fuggivano verso la montagna da quello che
credevano essere un rastrellamento, mentre i veri ricercati, cioè i
prigionieri, nascosti nei loro rifugi e protetti dal silenzio e
dall’aiuto della popolazione, non furono mai ricatturati. Alcuni di essi
lasciarono Lucoli durante l’inverno, forse per attraversare la
frontiera, altri, invece, vi rimasero e lo lasciarono dopo che i
tedeschi si furono ritirati nel giugno del 1944.
Mentre tutto questo avveniva, cominciò a parlarsi di movimento
partigiano ispirato da Orlando Colatigli, venuto da L’Aquila a stare con
lo zio prete, che si qualificò esperto in armi ed azioni guerra per aver
conseguito il grado di sottotenente nell’esercito e che era sbandato
come tutti i militari.
Disse, a noi di Colle, che era già in contatto con persone collegate con
gli Inglesi dai quali, di li a qualche giorno, avrebbe dovuto ricevere
armi, e che, per ritirarle, da un luogo fuori del Comune, aveva bisogno
del nostro aiuto e della nostra prestazione. Del ritiro, però, non ce ne
parlò più e la cosa, per noi finì lì anche perché entrammo nella
convinzione che quanto ci aveva detto fosse solo frutto della sua
fantasia.
Lui, però, nel paese dove andò ad abitare, mise su una piccola banda di
ribelli, allora cosi chiamati, che con la complicità e soprattutto con
l’aiuto di giovani che lavoravano nel deposito, iniziarono a rubare
munizioni e nasconderle nelle cripte della chiesa di S. Menna, in cui lo
ignaro zio era il parroco. Molte di quelle munizioni si rivelarono
inservibili o inadatte in quanto non ci furono mai armi adatte per
usarle ed il buon don Antonio doveva essere stato ben protetto dal Dio,
cui si era votato, chè i segreti delle cripte non furono scoperti,
perché, se cosi fosse stato, gli anni che gli erano rimasti, non li
avrebbe più vissuti.
La banda rimase nel paese per tutto l’inverno, senza commettere altri
atti che avrebbero potuto provocare la reazione dei tedeschi e allo
scioglimento delle nevi, si trasferì in montagna.
Intanto nei paesi ognuno s’ingegnava a suo modo per poter sopperire alla
carenza di alimenti, vestiario, calzature e cose per illuminare in
quanto la luce elettrica, oltre ad essere fioca, spesso mancava del
tutto. Si scardavano, si tessevano e si coloravano le lane tosate alle
pecore possedute, si usò ogni specie di tessuto per ricavarne indumenti,
si cercarono altre erbe commestibili e si riscoprirono metodi antichi
per ottenere farina dal grano che alcuni avevano nascosto all’ammasso o
alla tessera di macinazione e che vendevano di contrabbando.
Le derrate del tesseramento erano sempre più scarse e, per una ragione o
per l’altra, o non arrivavano o se arrivavano. mai nella giusta
quantità. Il tenente nibelungo, più di una volta, mise a disposizione un
suo autocarro per andare a caricare nei molini in Provincia di Teramo la
farina che ivi era stata assegnata per l’alimentazione dei Lucolani .
Nel deposito delle munizioni gli arrivi e le partenze si susseguivano a
ritmo incessante e per migliorarne l’efficienza i tedeschi eseguirono
allargamenti della strada, addolcendo le curve come quella della fonte
della Piaggia ed in S. Menna allargarono il bivio per dar modo agli
autotreni di rigirarsi. Corse voce allora, che proprio nello scavo di
quest’ultimo allargamento, i tedeschi avessero trovato,sepolti, i resti
di un guerriero con l’armatura e con dentro all’elmo alcune monete
romane. Questi resti, a dire sempre della voce circolante, furono subito
messi in casse ed immediatamente portati via.
Questa fu solo una voce non confermata da persone attendibili e, perciò,
rimane solo una voce anche se vagamente avvalorata da altra voce
giuntami alcuni anni dopo, che in S. Menna avvenivano le sepolture dei
guerrieri romani che erano in presidio nei luoghi dove sorgeva l’antica
“Amiternum”
Intanto che il tempo passava e si andava verso la primavera, la Valle
veniva sempre più spesso sorvolata da ricognitori e caccia bombardieri
alleati, che noi, dalla Fonte del Colle, guardavamo come da una
balconata ma, nonostante questi sorvoli minuziosi e persistenti fossero
fatti anche da quote molto basse, il deposito evidentemente, non fu
individuato, visto che alle ricognizioni non seguirono i bombardamenti.
Per la difesa contraerea i tedeschi avevano scavato, nelle rupi
circostanti e mimetizzate dagli alberi, alcune trincee a zeta e da esse
con un paio di mitragliatrici da otto e qualche mitragliera da 12,7
cercavano di contrastare le azioni degli aerei, sparando solo quando
questi mostravano la coda e, da come potemmo vedere, il loro fuoco mai
costrinse i velivoli ad interrompere la loro missione.
La supremazia area degli anglo-americani era divenuta sempre più
preponderante, i caccia bombardieri sparavano su qualsiasi cosa si
movesse sulle strade e, per evitare le perdite degli automezzi, i
tedeschi furono costretti ad interromperne il movimento durante il
giorno; di conseguenza, pure gli arrivi e le partenze al deposito si
interrompevano alle prime luci del giorno e riprendevano con le prime
ore della notte. Anche nella strada di Lucoli, precisamente alla fine
del rettilineo che da Collefracido va a Genzano, un autocarro, sorpreso
alla luce del giorno e malamente riparato sotto una quercia, venne
centrato da un caccia bombardiere ed esplose, assieme alle munizioni di
una vicina piazzola. Sul posto si formò un cratere del diametro di una
decina di metri e profondo circa cinque e fu ripianato, alcuni anni
dopo, con i lavori di sistemazione della strada.
Con l’avanzare della primavera i tedeschi ebbero sentore della presenza
dei partigiani in montagna ed iniziarono, perciò, ad inviarvi uomini
travestiti per esplorarne i luoghi e raccogliere informazioni dai
pastori che vi pascolavano il gregge . Un paio di volte ci provò,
andandovi travestito ed a dorso di mulo, anche Don Cesare, ma a quanto
parve, né i primi né lui raccolsero elementi sulla presenza dei
partigiani, ma i tordi e le cesene, disturbati da quegli intrusi, si
spostarono dalla macchia del “Costone” a quella più nascosta di “Cerasolo”.
Ci provò anche un manipolo di Fascisti, venuti fino al paese con un
autocarro e alle prime luci dell’alba, divisi in due squadre, con le
loro camicie nere ed i loro inni della morte, salirono sulla montagna
certi di riportare a valle, vivi o morti, i partigiani che vi si
annidavano. Alla sera, sull’imbrunire, si udirono dai paesi, scariche di
fucileria provenienti da “Malle Ara”. Tutti coloro che le udirono
pensarono subito ad un combattimento tra fascisti e partigiani, ma così
non fu. Era successo, invece, che le due squadre, in ritorno dalla
perlustrazione, essendosi incontrate prima del punto prestabilito e
nella semioscurità, si scambiarono per nemici e si spararono tra loro e,
tanto gli tremavano le braccia dalla paura, che non riuscirono a
colpirsi.
Sulla montagna i partigiani non subirono alcuna molestia ma nel paese,
dopo alcuni giorni, la Polizia Militare Tedesca arrestò, nelle loro
abitazioni Fernando Madrucciani di Casavecchia, Dario Zuccarini di
Piaggia e Giorgio Vespaziani con l’accusa di far parte
dell’organizzazione partigiana.
L’arresto avvenne, almeno per i primi due, appena poche ore dopo il
rientro nelle abitazioni, dalle quali mancavano da quattro giorni per
essere stati in montagna coi partigiani. Come i tedeschi fossero venuti
a conoscenza del collegamento dei tre con i partigiani e dell’ora del
loro rientro, nessuno l’ha mai saputo, se fu dovuto all’intercettazione
di chiacchiere di ingenui paesani o ad altra ragione più abietta, è
rimasto un mistero che non si svelerà più.
I tre furono trasferiti a L’Aquila, in Collemaggio, e lì tenuti
prigionieri subendo anche torture nel corso degli interrogatori. Circa
una decina di giorni dopo, giudicati da una Corte Marziale, furono
condannati a morte. Raccontarono poi, che alla lettura della sentenza,
fatta da un Ufficiale tedesco e tradotta in italiano, non seppero far
altro che guardarsi in faccia e abbozzarsi un sorriso: come a dire “e
moh!”.
La sentenza comunque non fu eseguita immediatamente, fu rimandata
all’esito della domanda di grazia, inoltrata al Comando supremo Tedesco
in Italia.
Il fronte intanto cominciò a muoversi per l’attacco sferrato dagli
Alleati e i tedeschi, anche dall’Aquila, iniziarono la ritirata. Ridotti
ormai ai carretti, s’incamminarono verso il Nord a piedi, marciando solo
di notte e trascinandosi dietro i prigionieri. Fu in quel marciare che i
tre, favoriti dalla notte e dalle defezioni dei militari che disertavano
le fila, poterono fuggire e raggiungere indenni le loro case.
Si avvicinò finalmente che anche Lucoli doveva essere abbandonato ed il
Nibelungo, che in tutta la sua permanenza non era stato ostile né
cattivo, volle comportarsi come alla leggenda che gli appartiene: la
mattina fece sapere, che alle ore due e mezzo del pomeriggio di quel 11
giugno 1944, le cataste delle munizioni sarebbero state fatte esplodere,
che la popolazione si doveva allontanare il più possibile e in luoghi
riparati, lasciando le case con porte e finestre aperte onde evitare
che, l’onta d’urto delle esplosioni, potesse danneggiarle e, inoltre,
fece distribuire anche quei pochi cibi che probabilmente i suoi soldati
non erano in grado di portare con loro nella ritirata. Consistevano, in
maggior parte, in cubetti di un impasto pressato che mai avevamo visto o
sentito nominare. Era un preparato misto di gallette e foglie di cavolo
disidratate e quando, nei giorni seguenti li mangiammo rappresi
nell’acqua calda, non stemmo certo a guardare la scadenza, tanta era la
fame, che sembrarono meglio di una buona minestra.
Memore delle nozioni sugli esplosivi e sulle munizioni, apprese in un
corso di artificieri che da militare avevo frequentato a Piacenza, presi
sul serio le raccomandazioni del tenente Nibelungo: andammo a ripararci,
con papà, mamma e sorelle, al di la del vallone posto a Nord-Est di
Monte Calvario da dove si potevano vedere i luoghi più lontani
interessati dall’esplosioni e al tempo stesso si era riparati da quelle
che si sarebbero veficate più vicino sotto Spognetta e Spogna. Dove
eravamo noi c’erano molti paesani ma altri, per meglio godersi lo
spettacolo, erano andati a mettersi sul crinale di “ Monte Calvario”.
La prima esplosione si verificò vicino al bivio di S. Menna e, come nei
fuochi artificiali, fu tutto uno schizzare, nelle più svariate
direzioni, di bengala e razzi multicolori che suscitarono gli applausi
di chi guardava e, mentre gli applausi scrosciavano, una tremenda
esplosione fece tremare tutto, terreno, muraglie, pini ed ogni altra
cosa. Vidi, allora, volare nel cielo una miriade di grossi tufi e,
dietro la cima di Monte Calvario, spuntare una nuvola di fumo seguita da
un’attorcigliarsi di fiamme e la gente, atterrita, che si precipitava
correndo, ruzzolando e cadendo giù per il pendio riparato, mentre, su di
loro, i tufi ricadevano come una grandinata. Miracolo volle che nessuno
fu colpito dai tufi, ma molte furono l’ escoriazioni e le contusioni per
le cadute e i ruzzoloni.
Seguirono altre esplosioni ogni due o tre minuti, intervallandosi tra le
due strade di Collimento e Ville, alcune secche come una mina, altre con
tremendi boati seguiti da funghi di fuoco e fumo, quasi simili a come
oggi si può vedere nei film per lo scoppio di bombe atomiche. Gli scoppi
non erano ancora cessati su queste due strade, quando iniziarono quelli
sotto la Piaggia che proseguendo lungo la strada, con le sue palle di
fuoco e fumo, lentamente si allontanarono verso le gole di Genzano, dove
finalmente sparirono circa due ore dopo l’inizio.
Ma non era finito, erano rimasti gli incendi sviluppatisi, che con il
loro calore, causavano le esplosioni degli ordigni rimasti sparsi e la
ricaduta delle schegge impedì il rientro nelle case ancora per svariate
ore. La constatazione dei danni e l’accertamento della possibilità di
passarvi il resto della notte, fu fatto perciò con lumicini o candele,
giacché quella poca corrente elettrica che prima c’era, non c’era più e,
per riaverla si aspettò altri tre mesi.
Il mattino seguente ci svegliammo che l’aria era limpida e cristallina,
con la valle sgombra di ogni traccia di fumo, ed un cielo di un
meraviglioso azzurro sul quale, in tutto il suo fulgore s’innalzò il
sole come per annunciare che il tanto sospirato giorno era arrivato,che
gli incubi della morte erano finiti e, come nel cielo, sull’avvenire,
era tornato il sereno.
Dopo le prime ore passate in casa quasi tutti coloro che non avevano
avuto problemi di danni, si riversarono nei luoghi dell’esplosioni per
verificarne gli effetti e soprattutto per cercare di recuperare qualcosa
che potesse tornargli utile. Passando e ripassando lungo la strada, che
in parecchi tratti più non era, enormi fossi sostituivano la sua
massicciata e stando attenti a non inciampare in ordigni esplosi e non
esplosi, si scoprì che, in alcune piazzole, distanti dai centocinquanta
ai duecento metri l’una dall’altra, le cataste erano rimaste integre con
sopra la carica di dinamite, innesco miccia e dispositivo di accensione
intatti.
Questo fatto rimase un enigma per tutti, ognuno cercava di risolverlo e
fu oggetto di parecchie discussioni, con vanterie più o meno ingenue
oppure sciocche che alla prova della logica rimanevano solo campate in
aria.
Anch’io quel problema me lo posi, e nelle lunghe riflessioni me lo
risolsi con questa teoria che ora espongo: che sia quella giusta non
posso garantirlo, nè posso avallarla con una pur piccola prova, ma dopo
tanti anni, in cuor mio, ancora ci credo.
La strada che da Genzano sale a Lucoli, a Casavecchia si biforca in due
bracci ad y: il primo, quello di sinistra, va diritto a Collimento e il
secondo, con un arco verso destra, raggiunge S. Menna mettendosi in
parallelo col suo tronco di sotto la Piaggia e dal quale dista, in linea
d’aria, non più di quattrocentocinquanta metri.
L’ accensione delle micce venne fatta da quattro soldati con due
motociclette, dei quali due guidavano il mezzo e gli altri due
accendevano le micce. Una moto partì da Fossatillo ed una da S. Menna e
accendendo man mano le micce dovevano rincontrarsi sotto la Piaggia,
proprio nel punto dove la strada è parallela con quella di S. Menna e da
dove, insieme, avrebbero dovuto proseguire nelle accensioni.
Se il tempo non fosse stato calcolato bene con la lunghezza delle micce,
i quattro accenditori avrebbero potuto correre il rischio di rimanere
investiti dalle esplosioni proprio nel punto del rincontro di sotto la
Piaggia e proprio nel momento in cui sarebbero iniziate le prime
esplosioni da S. Menna. E proseguire in quel lavoro, in mezzo a tanti
esplosivi e con il finimondo vicino, sarebbe diventato, per loro, molto
ma molto pericoloso .
Sempre, secondo la mia convinzione, quel rischio i motociclisti non
vollero correrlo e pensarono bene, per guadagnar tempo, di non fermarsi
su alcune piazzole, in modo che ai primi scoppi si trovassero già
lontani da quel punto critico di sotto la Piaggia.
Non far saltare quelle munizioni, al contrario del giovamento che ne
poterono trarre i motociclisti, fu per Lucoli un disastro peggiore di
quello combinato da quelle che esplosero. Rimaste così integre, furono
prese di mira dalla gente che, senza rendersi conto del pericolo che
andavano a correre, presero a rovistarle nella speranza di trovare cose
utili per la casa o di valore da rivenderle per guadagnare qualche
soldo.
Furono dapprima portate via le cariche con relative micce e inneschi
buone per essere utilizzate nello scasso delle vigne o per le mine di
altra natura, fu poi la volta della casse di dinamite e di tritolo che
venivano portate via dopo essere state svuotate del loro contenuto che
immancabilmente veniva lasciato sul terreno, seguirono poi i bossoli
delle munizioni di artiglieria incautamente separandoli dal proietto,
nella falsa credenza che fossero di ottone puro, le bombe a mano erano
incetta dei ragazzi che si divertivano a lanciarle, come fossero esperti
combattenti.
Fu nel separare i proiettili di artiglieria di grosso calibro che fu
scoperto che, nelle cariche di lancio, la balistite era contenuta in un
sacchetto di seta pura, di un bel colore grigio perla e questo scatenò
subito il desiderio delle ragazze che videro, in quella seta, la
possibilità di rinnovarsi il loro consunto corredo di mutandine e reggi
petti. E con tale desiderio, giù a separare bossoli dai proietti, senza
minimamente rendersi conto, che quei maneggiamenti avrebbero potuto
spegnergli per sempre, il recondito segreto di affascinare il loro amato
col corpo ornato da quel tessuto.
La balistite della carica, a forma di pasta Zita, ma un po’ più spessa
nel diametro, lasciata sparsa in terra, fu subito presa di mira e
razziata dai ragazzi che, a loro volta, avevano scoperto, che
mettendogli fuoco da una parte, dopo qualche secondo, partiva come un
missile, arrivando fino a distanze di 100 /120mt, prima di esaurire la
combustione.
Si viveva, dunque, nella più completa anarchia: il Comune, allora non
autonomo ma Delegazione Municipale, era completamente isolato dalla sua
Municipalità principale dell’Aquila: Il Delegato Municipale non si fece
più vedere in Municipio in quanto rappresentante di un’autorità
Podestarile che più non esisteva, i Carabinieri in servizio alla
Stazione erano scappati ancor prima dei tedeschi e le guardie comunali,
senza più una direttiva e forse temendo anche qualche inconsulta
reazione dovuta al cambiamento politico, reputarono opportuno non
intervenire per arginare quel caos divenuto incontenibile.
Tutto era permesso, quel che restava dei depositi era continuamente
visitato e rovistato dalla gente, anche non di Lucoli, in cerca di
dinamite, tritolo e relativi inneschi da usare per bonifica di terreni o
per mine nelle cave, e quello che non veniva portato via, era lasciato
sparso senza alcun riguardo. Sul terreno su cui il deposito era, c’era
di tutto: proiettili, bossoli, cartocci di dinamite interi o semivuoti,
saponette di tritolo intere o spezzate, balistite di tutti formati,
lunghi e corti, tanto da diventare un costante pericolo per possibili
urti, incendi o scoppi di capsule detonanti.
Con l’unica strada di comunicazione non più transitabile, senza energia
elettrica, l’unica linea telefonica distrutta e soprattutto senza alcuna
Autorità e assillati dalla fame, venne impellente la necessità di fare
un qualcosa per uscire dalla situazione. Si riunirono parecchie persone
e nominarono loro rappresentante il più antifascista che c’era a Lucoli,
Carlo Ciotti, con l’incarico di recarsi, con altre persone, a L’Aquila
dal Prefetto o altra autorità per avere la legittimità di agire a nome
del Comune.
Ne ritornò con la nomina a Delegato provvisorio e subito si
organizzarono squadre di lavoratori volontari di tutte le frazioni, per
procedere alla riapertura della strada, che i più gravi danni, li aveva
riportati dove erano scoppiate le piazzole del tritolo e della dinamite
e cioè sotto Spognetta e nel tratto da sotto la Piaggia a Collefracido.
C’era, però, il pericolo degli esplosivi sparsi sul tracciato che
potevano provocare tragedie se urtati con gli attrezzi di lavoro o
semplicemente calpestati con le ruote delle carriole che, allora, erano
di ferro. Sorse perciò la necessità di una bonifica del terreno prima
che esso venisse smosso. Non c’erano sul posto specialisti e in quella
situazione di fame e d’ isolamento, l’ipotesi di aspettare per cercarli
altrove, non era nemmeno da pensare.
Contribuire a quei lavori era interesse di tutti e dovere di tutti:
perciò, cosciente di quanto avevo appreso nel corso di artificieri di
cui ho accennato in precedenza, mi offrii, insieme ai miei cugini Mario
Cipriani e Pietro Marola di eseguire quella bonifica. Avevo appreso in
quel corso che la dinamite, il tritolo e la balistite esplodevano
facilmente con gli urti e, col fuoco, solo se innescati con detonanti e
che senza tale dispositivo bruciavano solamente.
Procedemmo quindi nel lavoro, raccogliemmo minuziosamente tutto quell’esplosivo
che giaceva al suolo, separando la dinamite dal tritolo e, stando bene
attenti che in mezzo non ci capitassero spolette, capsule o altro
materiale detonante, li ammucchiammo separatamente in luoghi dove,
qualora fossero esplosi, l’onda d’urto si sarebbe propagata solo in
alto. I bossoli e i proietti li accatastammo in altri luoghi, lontani
dai primi e tutto ciò che recuperammo di detonante a base di fulminati
fu interrato in luogo assai difficile da trovare.
Terminato il lavoro di raccolta, demmo fuoco ai mucchi della dinamite e
del tritolo e, stando lontano, riparati e col cuore in gola, aspettammo
che quel combustibile si fosse consumato. Non scoppiò, ma il rumore del
fuoco fu tanto forte e spaventoso che fece vacillare tutte le teorie che
avevo appreso a Piacenza.
I lavori per la riapertura della strada iniziarono e terminarono senza
incidenti organizzati e condotti da un operaio di Colle che seppe, con
la sua maestria, supplire alla mancanza di un tecnico.
Tutto sembrava finito, il traffico dei carretti era tornato quasi
normale, l’incaricato degli approvvigionamenti qualche sacco di farina
lo rimediava dalla distribuzione annonaria di L’Aquila, tutto andava per
il meglio quando forti scoppi di proiettili di artiglieria rintronarono
per la vallata, mettendo in allarme ancora una volta la popolazione.
Era successo che Pino Petricone, per tema gli fossero stati requisiti,
aveva nascosto, in chi sa quale stalla delle Ville, un vecchio autocarro
Fiat 18 BL e una vecchia autovettura e in quel giorno, 11 luglio 1944,
stava riportandoli a Casavecchia.
L’autocarro, di fabbrica anteriore alla prima guerra mondiale, era a
gomme piene e in una ruota la gomma mancava del tutto. Passando con la
ruota scoperta sulla balistite, nel punto dove questa era stata lasciata
sparsa dalle ragazze in cerca della seta, con l’attrito ne provocò
l’accensione. L’incendio che si sviluppò, propagandosi tra i molti
proiettili anch’essi sparsi, li fece esplodere.
Le esplosioni non causarono danni, ma Pino Perticone, per salvare il suo
piccolo figlio, che si trovava insieme al conduttore nell’ autovettura
trainata dall’autocarro, rimase gravemente scottato dall’incendio che si
era sviluppato.
Finalmente tutto era finito, il sale riapparve nelle cucine, la
popolazione ritrovò il sapore del pane e della pasta bianca, i fumatori
il sapore delle vere sigarette e i residui delle munizioni furono man
mano portati via dai ricostituiti corpi degli artificieri. Le munizioni
lasciarono alcuni morti e diversi mutilati, le case lesionate e
danneggiate, oltre al pericolo dovuto alla loro dispersione sui terreni,
che, nonostante diverse bonifiche, rimane ancora oggi. |