L’intervallo della vita
di Pamela Fiorenza
Eravamo tornate a casa verso le undici e qualcosa, avevo intenzione
di svegliarmi presto, per scrivere la tesi. Appena entrata nel letto
una scossa forte mi ha fatto tirare via le coperte. Sussultoria o
ondulatoria? Quando trema, trema in ogni direzione. Sono arrivata in
corridoio e ho acceso la luce. Mia sorella stava lì, sulla scaletta
e respirava male. Ci siamo guardate un attimo. Papà non è uscito
dalla camera. Mamma era a Roma.
Mia sorella ha detto Che facciamo. Ho detto Dài, andiamo a letto. Ha
detto Ma ho paura. Ho detto Ma paura di cosa? Poi ho detto Vieni a
dormire di là con me. Ha detto No torno in camera.
Verso l’una, un’altra scossa abbastanza forte. Ho ascoltato un
attimo per vedere se si stava alzando qualcuno. Niente.
Facevo un sogno strano, non meno dei soliti, in effetti. Era
coloratissimo. Luci fluorescenti di un locale di Praga. Sembrava un
locale del Queens, pieno di negri sorridenti. Invece era un locale
di Praga e faceva freddo. Ero sola, e parlavo con un dj che metteva
musica un po’ del cavolo. Io l’avevo fatto presente, e lui si era
risentito. Aveva gli occhi grigi e i rasta. Denti bianchissimi e
lunghi. Rideva sempre. Poi la musica ha cominciato a migliorare.
C’era Romualdo, con la solita faccia rossa e gli occhi verdi. Beveva
la solita birra dal bicchiere di plastica. Era asimmetrico come al
solito. Diceva “Pamè”, con il solito accento che non riesci mai a
capire se chiude o apre la E. Gli dicevo che dovevo tornare a casa e
che non sapevo come fare, per due motivi: perché conoscevo benissimo
il locale ma per nulla Praga e perché sapevo parlare inglese solo
all’interno dei locali, ma in strada no, quindi non avrei saputo
chiedere indicazioni. Lui mi guardava con la solita espressione un
po’ poco sveglia ma, all’apparenza, pensierosa. All’improvviso ha
detto Ok, ti accompagno io. Siamo usciti da una scalinata di metallo
e faceva un freddo da staccarti le suole delle scarpe. Lui teneva la
birra in mano, e io mi chiedevo Ma come non ti si congelano quelle
mani ossute?
Poi la metropolitana. E vibrava tutto. Sentivo anche il rumore
sordo. C’era Romualdo davanti a me con il giubbino aperto e una
spalla scoperta, come al solito.
Vibrava tutto. Sentivo anche il rumore sordo. Mi sono messa seduta
sul letto. Ho pensato Ok, ora smette. L’ho pensato più volte. Poi ho
iniziato a sentire dei rumori a terra, intorno al letto. Ta. Ta. Ta.
Non capivo. Ho tirato via le coperte. Scendendo dal letto ho messo
un piede su una custodia. Erano i dvd che cadevano dalla scrivania.
Ta. Ta. Ta.
Sono arrivata all’ingresso e ho acceso la luce. Anche mia sorella ha
fatto lo stesso. Poi ha urlato Papà, papà. La porta della sua camera
si è aperta e ci è corso incontro. La luce è saltata. Al buio, ci
siamo messi sotto un muro portante. Tremava tutto, in tutte le
direzioni e non finiva mai. Mia sorella piangeva e respirava male.
Papà diceva Zitta zitta non è niente. E poi, Dobbiamo uscire. Ci
abbracciava forte e Manu ha detto Dobbiamo uscire papà. Non ho
capito se era una domanda o un’affermazione. Però lui non ci
lasciava, nemmeno quando la scossa sembrava finita. Poi ha detto
Vestitevi, presto. Sono tornata in camera e ho provato ad accendere
la luce, ma niente. Ho toccato la mensola per cercare il telefono,
oppure solo d’istinto, non lo so. C’era un vaso caduto e i fiori mi
impedivano di trovare quello che, forse, cercavo. Allora ho iniziato
a tremare e ho pensato che erano veramente spaventosi quei fiori
così. Li ho gettati a terra, tra i dvd e i libri. Sono rimasta
immobile. Manu è tornata e ha urlato Vestiti, stai ancora così?
Allora io come una stupida, ferma e tremante, ho detto La tesi, devo
prendere il pc, c’è la tesi.
Ma non mi muovevo. Lei ha preso la borsa del pc e una maglia per me.
Siamo corse fuori. Tra i pianti e i respiri affannati dei presenti,
ho provato a mettere la felpa. Ma non ci riuscivo, non ero più in
grado di farlo. Zia mi ha presa per un braccio e mi ha vestita.
Qualcuno ha detto che tu eri corso da tua madre. Stavi dormendo a
casa di tua zia, sotto di noi, da un mesetto, perché avevi paura del
terremoto. Dicevi che sentivi meno le scosse, lì. Ma dopo quella
forte nessuno è riuscito a fermarti. Hai preso la macchina.
Al buio davanti casa ci muovevamo per non sentire la terra muoversi.
Poi lei ha urlato, in cima alla salita. Chiedeva aiuto. Siamo corsi
su. Con la febbre a trentanove e il fiatone, diceva che non
respiravi più. Io cercavo di tenerla in piedi e non capivo. Ho
pensato ad un attacco d’asma. Mi sono chiesta se qualcuno di noi
potesse essere in grado di fare un massaggio cardiaco. Lei strillava
e continuava a dire Aiuto non respira più. Poi ha detto È pieno di
sangue. E ha aperto le mani, e anche quelle erano piene di sangue.
Allora capivo ancora meno e tutti chiedevano Dove sta. Diceva Alla
Canale, ha fatto un incidente. Siamo corsi tutti. La macchina era
sottosopra, vetri ovunque. Al buio solo la luce di un faro e una
freccia. Ta. Ta. Ta.
Non voglio dimenticare nulla. Come tenevi le felpe nell’armadio,
quella volta che l’hai aperto e ne sono venute giù tre, tutte
arrotolate. Ci abbiamo riso tanto.
Il cappellino blu Indecente, ti dicevo che era proprio la tua marca.
Non era vero. Eri preciso, tanto. Sempre in ordine. Ci tenevi.
Quando arrivavo da voi e tu eri in partenza, la casa profumava di te
dall’ingresso. Non voglio dimenticare nulla, nemmeno il suono delle
tue chiavi sul portaoggetti in ceramica.
Urla. Pianti. E la terra che implacabile continuava a tremare. Ma
non era più importante. L’ambulanza non è arrivata. Non mi
avvicinavo, non potevo. Eravamo rimaste lontano, a pochi metri da
quel buio assoluto. Lei diceva tante cose, troppe cose, io dicevo
Zitta. Zitta. Come per far sì che non accadessero pronunciandole.
Ti hanno portato via in macchina, noi abbiamo aspettato una
telefonata senza speranza.
È arrivato il giorno, piano. Immensamente piano.
Quando abbiamo attivato il tuo account, parlavamo di vacanze. Mi hai
detto che se New York era bella come l’avevo descritta ci saresti
dovuto andare. Mi hai detto anche cosa avresti voluto fare
quest’anno e io non riesco a ricordarlo.
Siamo arrivati in ospedale. Ospedale inagibile. Malati ovunque,
fuori, mentre il sole senza una nuvola sembrava non appartenere alla
Terra, che tremava ancora.
Malati ovunque. Dentro, per terra. E i tuoi amici, con la
disperazione negli occhi e nello stomaco, hanno aiutato gli
infermieri a portare fuori tutti.
Polvereguantisanguefazzoletticalcinacci. Lacrime.
L’ultima volta che ci siamo sentiti, parlavamo su msn. Tu al piano
terra, io al primo piano. Avevi la febbre alta. Non volevi stare in
casa, per via delle scosse. Ti ho detto che non dovevi essere
preoccupato, che saresti guarito presto, e che andava tutto bene.
Hai scritto Speriamo.
Non è un racconto. Vorrei che lo fosse. Lo faccio diventare un
racconto, così, almeno per un attimo, lo tiro fuori, e mi sembra di
non averlo dentro. Mentre la terra continua a tremare. E non c’è più
niente.
Vorrei che qualcuno ci ridesse i volti sorridenti e spensierati,
radunati di notte in ogni piazzetta aquilana. Al Boss, al Farfarello,
allo Student, al Coloniale…
Mi dicevi che avrei dovuto laurearmi e andare via da L’Aquila. La
verità è che ci piaceva, come Lucoli, perché era tranquilla. E poi
era bella. Dicevamo che era fredda, troppo fredda, ma puntualmente
eravamo lì, tutti fuori, sempre, con quel tipico sostare
oscillatorio, prima su un piede, poi sull’altro, con le mani
congelate nelle tasche.
E mentre le esistenze degli altri continuano, le nostre si sono
fermate. Forse avremmo bisogno di un po’ di riposo, ma i piedi non
sono stabili sul terreno. E quando senti quel rumore, ti paralizza.
La verità è che ancora adesso, dopo tante scosse, quando arriva,
resti immobile, respiri male, o non respiri affatto. Forse pensi che
se stai fermo lì, magari non ti vede, non si accorge di te.
L’ultima volta che ti ho visto eravate sotto casa. C’era il sole. Io
ho pensato che sarei scesa, poi non l’ho fatto.
Forse avrei bisogno di un po’ di riposo. Ma quando chiudo gli occhi
le immagini di quella notte mi riempiono la testa come il gas. Forse
scrivo per far sì che nessuno chieda più come è andata. Perché è
stato terribile e ingiusto. Ci saremmo dovuti lamentare insieme per
l’impossibilità di entrare nelle nostre case, perché non abbiamo
dietro le nostre cose. Avremmo dovuto sedere sul prato, rassegnati e
afflitti, tutti insieme. Io mi sarei dispiaciuta per non riuscire a
scrivere la tesi, tu avresti detto Pensi sempre a studià.
Avremmo parlato delle serate aquilane, e forse tu avresti detto che
l’unico posto che non ti sarebbe mancato sarebbe stato il Farfa. E,
ad ogni minimo movimento del terreno, ti saresti alzato di scatto,
dicendo “Oh”. Forse avremmo anche sdrammatizzato, avremmo riso e ci
saremmo presi un po’ in giro, per non prendere tutto troppo sul
serio.
Ti ho salvato tante volte, nella mia testa, in tanti modi diversi.
Alcuni più verosimili, altri surreali. E ti salverò ancora.
Ciao Elpì.
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